Originally published in L'Espresso, March 11, 2002.






Libero clone in libero stato
Combattono contro le aziende che brevettano geni e parti del Dna per fini di lucro.
Vogliono che i risultati delle ricerche genetiche siano a disposizione di tutti. Ma non si
curano di quello che potrà accadere. E se nasceranno mostri?

di Enrico Pedemonte


Accadono cose stravaganti nel mondo dorato delle
biotecnologie. Alcune emergono con clamore sulle
prime pagine dei giornali, altre restano sepolte negli
interstizi delle riviste per iniziati. Succede, per esempio
– e questa notizia fa parte della prima categoria – che
un gruppo di ricercatori della Texas A&M University
cloni un gattino (battezzandolo Cc, copia carbone) e
che un’azienda texana collegata, la Genetic Savings &
Clone, proponga alle famiglie benestanti un clone (cioè
una copia identica) del proprio amatissimo animale
casalingo: gatto, cane o cavallo che sia. Il sito aziendale
(www.savingsandclone.com) fornisce anche il prezzo:
250 mila dollari, non proprio un regalo. Per gli animali
selvaggi (tigri e dintorni) l’offerta commerciale è allo
studio. Se riuscirà a clonare i panda in estinzione, forse
domani la Savings & Clone ci offrirà di regalarne uno
a nostro figlio, a Natale. Il che oggi può sembrare
agghiacciante, ma la storia insegna che ci si abitua a
tutto.

Accade anche, negli stessi giorni, che la famiglia Hashmi di Leeds (Gran Bretagna)
chieda il permesso di mettere al mondo un bambino progettato geneticamente per salvare
la vita a un altro figlio malato di talassemia: l’ente bioetico di vigilanza (la Hfea, Human
Fertilization and Embriology Authority) ha dato il consenso: ora i tecnici potranno
selezionare un embrione che contenga tutti i geni del bambino da curare, ma non quelli
della talassemia. Se il bambino nascerà, si potrà usare il suo midollo sano per fare un
trapianto e salvare la vita al piccolo malato. Vicende analoghe si sono già verificate negli
Usa: un bambino è stato concepito in provetta per salvare (con il suo midollo osseo) la
sorellina di sei anni malata di anemia di Falconi. E in altri casi, bimbi sono stati messi al
mondo per curare familiari malati di leucemia.

Questi esempi costituiscono solo la parte visibile dell’iceberg. Sotto c’è ben altro. E
molti ricercatori, nel descrivere quello che sta per avvenire, fanno un parallelo storico
esplicito: l’attuale fase delle biotecnologie ricorda il vecchio mondo dei grandi computer
nei primi anni Cinquanta. Allora sulla Terra c’erano solo poche grandi macchine e i
tecnici in grado di maneggiarle erano una minuscola schiera di sacerdoti, un popolo di
eletti che conosceva una lingua sconosciuta ai più. Poi arrivarono i “cantinari”:
cominciarono a progettare personal computer nei garage di casa (Bill Gates fu uno di
quelli), nacquero pc da quattro soldi che finirono su tutte le scrivanie e spuntarono
migliaia di hacker. Le biotecnologie sono in questa fase di passaggio. Una nuova
generazione di “bio-cantinari” sta nascendo. Che cosa accadrà se una tecnologia
delicata come l’ingegneria genetica si “democratizzerà” come è avvenuto per i
computer? Le questioni sul tappeto sono talmente rilevanti da investire come un ciclone
le basi stesse dell’organizzazione della ricerca scientifica internazionale, e le sue
fondamenta etiche. Vediamo perché, facendo un piccolo salto indietro.

Il problema nasce nel 1990, quando viene lanciato il Progetto Genoma con l’obiettivo di
catalogare tutto il patrimonio genetico dell’umanità, schedando, atomo per atomo, i
dettagli del nostro Dna. All’inizio, gli scettici erano parecchi. A molti l’impresa
sembrava disperata, un lavoro di decenni. Invece, l’innovazione tecnologica è stata assai
più rapida del previsto. È nata una nuova disciplina, la Bioinformatica, e sono stati creati
computer e software in grado di analizzare in modo sempre più rapido le informazioni
genetiche nel Dna di tutte le forme viventi. Così, oggi, oltre il 90 per cento del nostro
Dna è stato ormai decodificato e tradotto in sequenze di elementi noti.

Di fronte a ciò era ovvio che si moltiplicassero le aziende desiderose di trasformare
queste conoscenze in business: tanto che molte società hanno cominciato a brevettare
geni e proteine, cioè pezzi microscopici del nostro corpo. Era altrettanto prevedibile che,
dall’altra parte, si moltiplicassero le proteste: migliaia di ricercatori in tutto il mondo si
ribellano di fronte alla privatizzazione del nostro patrimonio genetico da parte di poche
aziende high tech. Ma qui arriva il bello, perché una delle cose che non erano state
previste alla metà degli anni Novanta era lo sviluppo di Internet. E proprio questa novità
è il motore di una nuova rivoluzione in atto.

I leader di questo movimento libertario si ispirano al movimento per il “free software”, i
cui militanti lottano contro lo strapotere di Microsoft nel mondo dei pc. In campo
biologico, i ricercatori chiedono il “free code” (codice genetico libero) e rivendicano il
diritto alla “biofreedom” (libertà biologica). L’obiettivo è impedire alle aziende di
brevettare un gene, una sequenza di Dna, una proteina. Se è vero che Internet è il regno
della libertà, le conoscenze vanno condivise in rete. E questo, naturalmente, mette a
soqquadro tutto l’ambiente della ricerca creando sconquassi a catena. Gli esempi sono
molteplici. Michael Eisen, noto biotecnologo californiano, per esempio, ha creato la
Public Library of Science (www.publiclibraryofscience.org), una rivista gratuita
pubblicata su Internet che raccoglie i lavori (selezionati da commissioni di esperti) di
migliaia di ricercatori con l’obiettivo di dare origine a un archivio dati consultabile da
tutti. Può sembrare una banalità, ma se un progetto di questo tipo avesse successo, il
primo effetto - sconvolgente - sarebbe la crisi di centinaia di costosissime (e assai
prestigiose) riviste cartacee che pesano parecchio sui bilanci degli istituti scientifici.
Perché non pubblicare gli articoli online e spostare le risorse sulla ricerca, mandando a
gambe all’aria tutta questa fetta di editoria?

La rivista online “Salon” (www.salon.com) lancia la parola d’ordine “Genome
Liberation” e racconta come uno dei capi della rivolta biotech, Jeff Bizzarro, ha creato
un sito (http://bioinformatics.org) che è diventato il nodo virtuale di centinaia di
ricercatori di tutto il mondo: qui ciascuno mette in rete i risultati dei propri progetti
biotech, seguendo la filosofia della condivisione dei risultati che ha caratterizzato il
mondo dell’informatica libera. I risultati vengono confrontati pubblicamente, in tempo
reale e a livello internazionale: si tratta di codici genetici che possono essere verificati,
sperimentati, riutilizzati. Molti la chiamano “biotecnologia democratica”: le ricerche
vanno condivise e utilizzate seguendo norme etiche stabilite dalla comunità scientifica.

Spiega Nathan Torkington, uno dei più noti esperti nelle nuove tecniche della
bioinformatica: «Esattamente come l’invenzione del browser ha rivoluzionato il modo di
raggiungere l’informazione sul web, i nostri progetti cambiano il modo di selezionare e
confrontare le informazioni genetiche, ovunque esse siano». Queste affermazioni,
apparentemente pacifiche, stanno scatenando violente polemiche all’interno
dell’accademia sulla opportunità che le università partecipino direttamente ai profitti. I
fautori della ricerca come business sostengono che solo garantendo la segretezza sui
risultati si incentivano nuove scoperte. Dall’altra parte, i militanti della “libertà
biologica” replicano che solo rendendo pubblici i risultati si può consentire una verifica
collettiva dei dati, migliorando la qualità delle ricerche e accelerando la scoperta degli
errori. Ma questo, che in altri tempi sarebbe stato niente più che un sofisticato dibattito
interno alla categoria, diventa un problema di importanza cruciale se si pensa che in ballo
c’è la progettazione di esseri umani.

Chris Dagdigian, ricercatore al Blackstone Computing and Genetics Institute nel
Massachusetts, fa notare che, soprattutto tra gli studenti, l’amore per lo studio del
patrimonio genetico sta crescendo e suggerisce di creare su Internet dei siti da cui sia
possibile scaricare tutti i dati sui geni, esattamente come oggi si scaricano files audio o
video. Qualcuno prevede la nascita di software simili a Napster o Kazaa (quelli che hanno
consentito a milioni di giovani di trovare e scaricare gratis brani musicali in rete) per
cercare informazioni sulle caratteristiche genetiche di uomini, animali o piante e
condividerle on line tra gruppi di utenti. Potremmo avere siti Internet che consentono di
fare “streaming” di interi codici genetici. Ognuno potrà scegliere i geni con le
caratteristiche preferite e scaricarli dalla rete. Ann Loraine, un’affermata biotecnologa di
Affymetrics (www.affymetrix.com), sostiene che «da qui a vent’anni ogni ragazzino
potrà navigare su Internet all’interno del genoma umano, potrà avere la possibilità di
investigare sui geni e imparare a costruirli nel suo piccolo laboratorio di casa».

A che cosa potrebbe portare questo uso collettivo delle biotecnologie non è del tutto
chiaro: neanche i ricercatori lo sanno. Quel che è certo è che intorno al fenomeno
(scientifico) della bioinformatica si sta sviluppando un movimento squisitamente
culturale battezzato biopunk . Uno dei suoi esponenti, Eduardo Kac, ha coniato questi
slogan: «Liberate i nostri dati genetici dalla schiavitù dell’industria. Lasciateci fare ciò
che vogliamo della nostra biologia».

Ovviamente, non tutti i ricercatori dormono sonni tranquilli. Uno dei più preoccupati è
Bill Joey, considerato uno dei padri della rivoluzione informatica, coinvolto fino al collo
in questa vicenda essendo uno dei fondatori della Sun Microsystem, azienda in prima
linea nel fornire computer e software alla nascente bioinformatica. Già nell’aprile del
2000 Joey scrisse sulla rivista “Wired” un articolo (“Why the Future doesn’t need us”:
perché il futuro non ha bisogno di noi, www.wired.com/wired/archive/8.04) assai
pessimista, nel quale sosteneva che dall’unione dell’informatica, della genetica e delle
nanotecnologie (studiano macchine microscopiche) potrebbe arrivare il rischio di una
catastrofe per l’umanità. E la ragione di questo pessimismo, in estrema sintesi, è questa:
le nuove tecnologie sono sempre più potenti, facili da usare e ormai in grado di
modificare i meccanismi intimi della vita. L’allarme lanciato da Joey, che invitava gli
scienziati a fare un passo indietro, ha probabilmente aperto una nuova epoca. Per la
prima volta dai tempi di Galileo molti scienziati laici si trovano di fronte alla domanda,
dolorosissima, se la libertà di ricerca sia un diritto da difendere a tutti i costi. E in ogni
caso.

08.03.2002

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